ABITARE IL CONFINE
Conferenza tenuta dall'Arch. Stefano Piazzi, nella rassegna "Lo spazio dell'Abitare", il 6 aprile 2022
(1) Locandina
(2) ABITARE IL CONFINE
(3) Le mie case
(4,5) Anni ’50, casa dei nonni materni, Bologna via San Vitale, una delle strade del tridente Longobardo che si diparte dalle due torri. Appena entrati nell’appartamento al primo piano, a sinistra c’era un’ ampia cucina (in dialetto bolognese ca’ indica sia casa che cucina) con un grande camino sotto la cui cappa ci si poteva addirittura sedere; davanti al camino c’era una tavola attorno alla quale ci accomodavamo e per un po’ ascoltavo la mamma e i nonni chiacchierare. Appena potevo mi congedavo da quei discorsi che mi annoiavano e percorrevo un corridoio che conduceva alla stanza che più amavo, cui si accedeva scendendo pochi gradini (6); era una camera buia, appena rischiarata da una finestrella bassa affacciata sul portico; la si poteva definire “sgombero”, in sostanza un grande ripostiglio abitabile in cui i miei nonni tenevano alcuni mobili non più utilizzati, libri e tanti curiosi oggetti ormai inutili o in sovrappiù.
Mi sedevo allora sul pavimento vicino alla piccola finestra a sfogliare le raccolte annuali dalla bella copertina marmorizzata della Domenica del Corriere e a guardare e riguardare le illustrazioni di Beltrame e Molino; ricordo che mi fermavo spesso a fantasticare e allora, seduto com’ero sul pavimento, guardavo a lungo dalla finestra le persone che passeggiavano lungo il portico (7). Del resto della casa non rammento più nulla e questi stessi ricordi sono piuttosto sfocati, eppure mi rimangono di quelle visite ai nonni vivissime sensazioni ed emozioni. Cosa mi ha colpito così da riaffacciarsi ancora oggi alla memoria con tanto calore e nostalgia? Certamente il ritorno col pensiero alla mia infanzia, ma perché proprio quella stanza buia sul portico è rimasta mentre gli altri spazi sono completamente svaniti?
Credo non vi siano dubbi che molto si è fissato nella mia mente grazie soprattutto alla particolarità di quello spazio, di quella esperienza di luci e ombre, di interni ed esterni, di quella veduta sulla vita della città che mi veniva incontro o si allontanava (8). In quel tempo la mia famiglia viveva in una casa degli anni ’20, anch’essa con alcune peculiarità; ho provato a schizzarne una pianta a memoria (9). La sala più ampia, che usavamo come sala da pranzo, – non c’era un salotto e in questa sala si svolgeva ogni attività comune - era in realtà un grande spazio di passaggio senza finestre, illuminato dalla luce naturale che veniva dalla veranda che disimpegnava a sua volta la cucina con la stufa a carbone e il grande bagno con lo scaldabagno a legna; la veranda si apriva su un terrazzo ad angolo che in Primavera e Estate usavo per andare nella mia camera che pure si affacciava sul balcone. Anche in questo caso i ricordi si sono fissati sulla anomalia di alcuni luoghi particolari (una stanza senza finestre da cui si intravedeva la veranda, una stanza questa invece violentemente illuminata da una parete totalmente vetrata, una terrazza-corridoio che chiudeva il circuito delle mie corse in tondo per la casa …), piuttosto che sulla razionalità degli altri spazi classicamente dotati (10).
In entrambi i casi la gran parte della suggestione sta nel confine fra interno e esterno, nel trattamento dell’involucro che concentra tutto il rapporto con il mondo esterno in un unico fuoco, molto piccolo nel primo caso, un’intera parete nel secondo; erano spazi molto protettivi, intimi e tranquilli e, al contempo, fortemente connessi con il fuori per contrasto e concentrazione focale; a voler riprendere il paragone fotografico, nel primo caso si può dire di trovarsi addirittura all’interno di una sorta di “camera” stenopeica (una scatola con un piccolo foro) assieme alla formazione dell’immagine dell’esterno annunciata da un riflesso di luce o dal passaggio di un’ombra. Questi esempi riportano un’esperienza personale e ovviamente limitata di configurazioni spaziali distributive che, proprio per la estrema distanza dagli spazi razionalisti, possono aver arricchito la mia conoscenza e la mia intelligenza, come il sapore di un cibo nuovo e particolare.
(11) La casa che siamo - riferimenti
Vi è una azione speculare nella configurazione degli ambienti; esiste cioè anche il processo inverso, non più la casualità di spazi “trovati”, ma la determinazione e la ricerca di involucri che siano infine “la casa che siamo”, ovvero l’espressione visibile della nostra personalità e ne favoriscano la crescita. Alcuni esempi in tal senso possono aiutare a chiarire il mio pensiero e forse anche a suggerire metodologie di risposta ad un bisogno. Consideriamo per cominciare i progetti di case a patio di Mies van der Rohe. Ce ne da un’interpretazione assai convincente Inaki Abalos nel suo libro “Il Buon Abitare”, lettura che riassumo in breve aggiungendo alcune mie personali considerazioni. Prendiamo la casa a 3 corti del 1934 (12). Nonostante le dimensioni – circa 300 mq.- che la collocano esplicitamente al di fuori di ogni ricerca sull’existenzminimum, non è prevista una famiglia in questa casa con un solo letto; non ci sono porte, la suddivisione e l’isolamento degli spazi più specializzati sono assicurati dalla sovrapposizione labirintica di alcuni setti murari. In generale lo spazio sembra fluire senza ostacoli all’interno e all’esterno, suggerendone una fruizione dinamica con infiniti punti di possibile sosta e contemplazione. La casa è recintata da alti muri impenetrabili agli sguardi della città; all’interno la vista può invece spaziare dalle corti alla casa; tutto si affaccia sui patii mediato solamente da un involucro di cristallo, una pelle totalmente trasparente che offre ogni spazio interno ed esterno alla più totale reciproca introspezione (13).
Ancora una caratteristica di questa casa acutamente rilevata da Abalos: l’affermazione di una orizzontalità prospettica tale da sopprimere ogni idea di divino. La troviamo nel trattamento coloristico omogeneo dei piani orizzontali e in ogni dettaglio costruttivo come nelle fughe orizzontali alla base e alla sommità dei setti, che fanno galleggiare le pareti, o nei pilastri senza capitello nè base, nell’altezza interna di 3.20 m. che colloca il punto di vista esattamente sul piano di simmetria. Osservando alcune immagini del Padiglione di Barcellona del 1929 (che questa casa assume a modello) viene addirittura naturale ribaltare la scena rispetto al piano di simmetria usando lo specchio d’acqua per riflettere il cielo, annullando ogni riferimento verticale al basso o all’alto e al contempo la percezione della gravità.
Un’ultima considerazione sulle corti: nel patio più grande sul davanti non ci sono siepi o aiuole: è un prato con pochi alberi ove è rappresentato il susseguirsi delle stagioni secondo la ciclicità del tempo naturale che viene qui affermata rispetto alla linearità del tempo storico e alla “tirannia del futuro divino” (14,15).
E dunque per chi ha progettato Mies questa casa che non ha committente? Si direbbe per sé stesso. Lo rivelerebbe la sua assoluta concentrazione sulla sua formazione dopo la separazione dalla famiglia nel ’21, attraverso la frequentazione di storici dell’arte, filologi e filosofi – fra questi Alois Riehl, suo cliente e studioso di Nietzsche. Scrive Mies nel ’32 in occasione dell’anniversario del Werkbund: “ …restiamo fermamente convinti che il significato e il valore della nostra esistenza consista solo ed esclusivamente nell’offrire allo spirito, nel senso più ampio del termine, la possibilità di realizzarsi.” Gli echi dell’uomo nietzchiano sono evidenti in questa sua ricerca e si riflettono nella casa a 3 corti sulla quale ci siamo brevemente soffermati (16). Essa fu progettata per un uomo tutto volto a una laica contemplazione del mondo, ad affermare la propria conoscenza e la propria forza interiore, ad affinare la propria competenza ampliando il proprio sé, a costruire la propria identità. Qui egli coltiva la sua individualità attraverso lo studio e la meditazione, che però è la meditazione di un guerriero che si muove in questo spazio orizzontale e fluido secondo ritualità tutte umane tese a plasmare corpo e mente; lo possiamo immaginare anche, dietro alla grande vetrata, eseguire un Kata di una disciplina marziale; ma non è un uomo solitario. La casa sembra fatta apposta per sviluppare relazioni mondane. Egli vive in un processo di espansione e concentrazione. E’ questa una casa che rappresenta e identifica l’uomo che la abita, e che allo stesso tempo lo accompagna nel suo percorso di autocostruzione, un abitare, un habitus su misura.
Mentre Mies progettava le case per un uomo profondamente individualista, in Unione Sovietica attorno al 1930 Moisei Ginsburg e Ignati Milius realizzavano le residenze per i dipendenti del Narkomfin (Commissariato delle Finanze del Popolo). Qui la casa è assunta come “generatore sociale”dell’uomo nuovo (17). Questo uomo, questo ingranaggio, vive una condizione mutevole che lo dovrebbe condurre consapevolmente dalla tipologia relativamente ampia dedicata alla famiglia ancora legata a un modo di vivere piccolo borghese, ad una casa minima laddove egli abbia compiuto il passo verso la socializzazione delle attività domestiche (lavare, cucinare e mangiare, svolgere attività fisica) e del nucleo familiare, al punto che delegherà perfino l’educazione della prole allo Stato; non servono più in questo caso le camere per i figli che verranno cresciuti in “collegio” (18,19). Tutto converge verso un edificio collettivo, collegato al corpo alloggi tramite il ballatoio del primo livello. Questa miniaturizzazione del contesto urbano, che ispirò Le Corbusier per l’Unité d’Habitation alla fine degli anni ‘40, finì per svilirsi nelle sale condominiali dei PEEP e nelle palestre, piscinette e lavanderie comuni dei condomini di lusso, senza rappresentare una reale occasione di coesione sociale, poiché questa non può che affermarsi e non può che essere ricercata nel sistema urbano delle vie, delle piazze, degli edifici pubblici destinati al culto, alla scuola, alla cultura, nelle chiacchiere al bar, nella casualità degli incontri, nell’inaspettato (polis, civitas e urbs). E in effetti quelle dotazioni di servizi interni rappresentano piuttosto un incentivo a chiudersi e quindi in ultima analisi una forma di autoconfinamento.
Si pensi al portico così diffuso con continuità nel centro di Bologna, luogo fisico della flannerie, filtro e confine abitabile tra il privato dell’alloggio e la strada, e alla sua riduzione a pilotis isolati nelle torri condominiali della periferia. Si pensi ancora alla Rue Interieure, nostalgica replica della strada, lasciata ormai definitivamente alle auto e a striminziti marciapiedi negli anni dell’espansione urbana. In definitiva ridurre alla scala dell’edificio le componenti urbane sembra non funzionare così bene. Il lock down ha evidenziato che se la città vien meno, i suoi spazi aggregativi sono insostituibili e l’attività della civitas si ferma creando un disagio profondo, una mutilazione della vita. Ciò che tuttavia è avvenuto assai prima della pandemia, in particolare con l’ingresso nelle case di dispositivi elettronici sempre più raffinati, che stanno costruendo un fuori possibile (metaverso, realtà aumentata …) oltre la membrana di un Ipad o un visore, nuova finestra virtuale sul mondo.
Al di là della città, che ci è stata negata in toto, con l’isolamento nelle cellule abitative abbiamo dovuto mettere alla prova la tenuta degli spazi domestici e abbiamo potuto avvertire con evidenza la loro effettiva coincidenza con le nostre esigenze.
Vedremo nelle prossime conferenze a quanti spazi specifici abbiamo dovuto rinunciare nella offerta immobiliare dei condomini dagli anni ’50, alcuni per esigenze economiche di contenimento delle cubature, altri per scelte distributive connesse a una più aggiornata vita sociale: non si è perduta ovviamente la cucina ma molto spesso è scomparsa come stanza dedicata e separata annettendone la superficie al soggiorno/pranzo.
Diamo un rapido sguardo ad un altro esempio che viene dal passato, un progetto di casa del 1946 di Hugo Haring (20) : si consideri come l’estrema articolazione degli spazi secondo accostamenti di forme organiche e squadrate determinino una quantità di situazioni spaziali molto coinvolgenti; ma si noti anche che l’arredamento, che rende possibile la funzionalizzazione degli spazi stessi, non è che una delle possibili scelte e che tali scelte sono comunque demandate all’abitante. Sono illuminanti a tal proposito le considerazioni di Fernando Quesada Lopez su questo tipo di atteggiamento progettuale (Hugo Haring, Espacios Coreograficos del devenir – 2012 su Proyecto, Progreso, Arcquitectura): egli sostiene che lo spazio può leggersi come lo scenario per la distribuzione del quotidiano o di azioni rituali; secondo Quesada Lopez l’Architettura può negoziare forme e uso nello spazio dal protesico al coreografico. Il primo che opera come estensione del corpo lavora come una disciplina ergonomica nella quale la forma dipende da usi pre-assegnati; i lavori coreografici invece non rispondono al singolo uso ma in un certo senso lo “attendono”.
Mies trovava evidentemente esagerato e irritante lo sforzo dell’amico di assegnare nella casa un proprio angolo a ciascuna idea di funzione; “Ma fai degli ambienti grandi” gli avrebbe detto “e poi dentro puoi farci quello che vuoi”. Vero o meno l’episodio, questo ragionamento, sembra attagliarsi perfettamente agli spazi proto-industriali, dismessi e trasformati in loft in cui gli abitanti potranno svolgere un’operazione creativa di personalizzazione dei volumi sui 3 assi cartesiani (21,22).
La spazialità del loft, il cui prototipo è la Factory di Andy Warhol negli anni ‘60, verrà poi estesa programmaticamente a tipologie differenti e più contenute: (23,24) un esempio è il Nemasus di Jean Nouvel realizzato a Nimes nel 1987; qui Nouvel progetta metri cubi indeterminati o rideterminabili.
“Una buona stanza, per quasi tutti, è una grande stanza.”dice Nouvel, e prosegue “Un buon appartamento … significa un grande appartamento”. Le norme del social housing ”hanno sfornato appartamenti, tutti virtualmente identici, che diffondono solo tristezza – la tristezza di una condizione sociale che tende a confondere persone e numeri, norma e qualità, modello e identità.”… Le “ unità abitative partono da uno spazio aperto di circa 60mq …questi appartamenti sono progettati tutti con specifici spazi aperti e scenografie (duplex, viste dalle camere sul soggiorno), e una scelta di componenti (scale, pareti, porte)….”
In qualche misura questo tema della definizione fisica di modi di vivere all’interno di uno spazio indifferenziato, riguarda anche Casa Lana di Ettore Sottsass (25,26,27,28).
Casa Lana può essere letta totalmente nei suoi rapporti interni (29,30), nei frequenti attraversamenti di confini, fisici e visivi, di soglie indefinite e labili nell’uso (come nel passaggio tra il soggiorno e la corona di stanze e corridoi che lo accerchiano) eppure così evidenti tra gli spazi domestici, così carichi di funzioni, quasi normate, si potrebbe dire, dalla dislocazione degli arredi e dei diaframmi; la sua forza è tutta centripeta e non coinvolge lo spazio esterno (31,32). Tutt’altro profilo emerge dalla descrizione che lo stesso Sottsass fa nel 1988 di una casa contadina di Filicudi; qui è il rapporto con l’esterno a definire la casa e a plasmarla; questa ha bisogno del sistema degli spazi esterni perché vi si possa svolgere appieno la vita dei suoi abitanti; senza il pergolato ombreggiato (bagghiu), con le sue tozze colonne (pulera) e i bisola, le panche in pietra dove sedere e, grazie ai pusaturi (cuscini di pietra), sdraiarsi alla sera, la stessa esistenza risulterebbe amputata dei rapporti familiari e di vicinato. E non basta un prato aperto e alberato, serve evidentemente un “fuori” fortemente connotato, una vera e propria stanza, un recinto pavimentato e delimitato da importanti accenni murari, insomma ancora spazio della casa.
“A Filicudi” scrive Sottsass “le case sono disegnate per sopravvivere all’invasione della luce …. A Filicudi le case sono compatte e i muri sono molto spessi, costruiti come barriere contro il mondo circostante e le stanze, … , una vicina all’altra, senza corridoio, sono alte, oscure: non hanno finestre, … , perché a nessuno importa niente di guardare il paesaggio, perché il paesaggio è il luogo nemico dove si va soltanto a fare fatica… Le stanze di Filicudi hanno soltanto una piccolissima finestra, un buco quadrato, alto, quasi contro il soffitto … . In quelle stanze di Filicudi certamente non si legge, non si gioca neanche a carte; si riescono soltanto a fare operazioni semplici, si depositano i capperi sotto sale, …, si cucina, … si dorme … … in quella oscurità l’esistenza diventa un ripetersi incosciente di gesti controllati dall’abitudine, diventa uno snocciolarsi di memorie più o meno consolanti come è consolante e incosciente la lettura di un rosario.” “… Se poi, … c’è bisogno di più luce, si apre la porta della stanza che sempre guarda all’esterno.
Aprire la porta vuol dire far esplodere una improvvisa bomba di luce dentro alla stanza, vuol dire restare accecati, …. Per questo, le porte delle stanze di Filicudi, che sono vetrate, sono a loro volta coperte da porticine, … . Le stanze di Filicudi sono di solito allineate lungo una terrazza che guarda il mare lontano e le terrazze sono ombreggiate da una pergola sostenuta da grosse colonne…. anticamente coperta da fasci di rami secchi di ginestra. Da queste pergole scendono …luci e ombre …in milioni di frammenti diffusi e vibranti … è come la luce di una sfumatura tra il bianco accecante del grande spazio marino e l’oscurità soffocante delle stanze.”
“In quelle ore del giorno, quando il giorno passa e poi finisce nel tramonto e poi lentissimamente finisce nella notte , …. La luce delle terrazze accompagna la stanchezza, diventa la sede di risate, … la sede di interminabili storie raccontate, e di pettegolezzi, la sede di lente bevute e di incontri e di saluti. Quella strana luce un po’ stanca, che non è aperta, che non è pura luce cosmica ma è filtrata dai rami secchi di ginestra è ancora la luce della casa.”
E’ questa una casa ben radicata nel luogo dove è costruita, modellata nella sua materia, nel clima e addirittura nei suoi cicli temporali, una sorta di meridiana che scandisce (sgocciola) le ore, i mesi, gli anni (33)
All’opposto, negli anni ’60 un collettivo di architetti britannici, gli Archigram, sul fronte del vivere nomade, ipotizzò città mobili, senza radici, palazzi-garages (34) dove parcheggiarsi con le proprie case su ruote, in paesaggi indifferenti in cui attivare di volta in volta nuove relazioni e collegamenti, una “Nomadland” pianificata e strutturata. Scrive estremizzando Luca Molinari in “Le Case che Siamo: “Se la casa scomparisse a poco a poco, decretando per i nostri figli un consapevole destino nomadico a portata di clic?”. Personalmente non credo molto nell’avverarsi delle visioni distopiche (in questo caso atopiche) fantascientifiche indotte dalla tecnologia più esasperata e invasiva; certamente già esistono fenomeni di autoisolamento da una vita sociale fisica e di auto confinamento in una vita di relazione sempre mediata dai dispositivi elettronici come ad esempio avviene per i giovani colpiti dalla sindrome di Hikikomori (35), Sono consapevole della sempre maggiore invasività, anche biologica, delle apparecchiature del metaverso (36). Eppure anche l’abitazione di Rick Deckard in Blade Runner, che vive tra replicanti e ologrammi interattivi, (37) è un luogo fisico relativamente normale, vi si cucina, si beve whiskey, è ben radicata nella città (38).
Perfino in Matrix, una vita di pura immaginazione indotta dalle macchine si svolge in un mondo “domestico” e urbano del tutto tradizionale, come nella visita di Neo all’”Oracolo” in una cucina che più normale non potrebbe essere.
Dirò di più: ritengo che un futuro senza possibilità di radicamento, abitato da nomadi senza storia sia da contrastare (39). Si pensi alla questione della mezzadria descritta così drammaticamente nell’”Albero degli Zoccoli”, il film di Ermanno Olmi del ’78: qui le famiglie dei mezzadri possiedono a stento un animale e un carro su cui trasportano le poche e povere cose da una cascina all’altra, sempre nel dolore di un abbandono, di un lutto.
Il luogo dell’abitare è infatti il sito più la storia: l’abitante vi innesta la sua come una patina del tempo sulle murature cosicché i luoghi dove si vive divengono luoghi della memoria.
Ogni trasloco è così una perdita, perché nella casa si specchia la nostra vita, il nostro tempo, la testimonianza di aver vissuto; per non dire delle rovine dei terremoti o della guerra che si portano via i muri ed ogni altra traccia (foto, oggetti tramandati ecc.). La casa ci dovrebbe rappresentare, come un abito, come il nostro aspetto, che in particolare nell’adolescenza non ci convince, che vorremmo mutare perché possa meglio aderire all’idea che via via ci stiamo facendo di noi stessi fino poi a poter affermare: io sono questo, sono così o così vorrei essere, questo è il mio ideale, il mio programma di vita.
(40) Finestre, pelle dentro/ fuori
(41) Prendiamo la casa di Konstantin Melnikov costruita nel 1919 a Mosca: è il progetto di vita dell’artista per sé e la sua famiglia, una casa con poche porte, pochi confini appena accennati da frammenti murari (42), eppure dotata di piccolissimi ambienti chiusi e raccolti (celle monacali) per lo studio dei figli: le due torri cilindriche intersecate creano un rimando di spazi e diaframmi dallo spazio domestico fino al confine più significativo, quello tra interno ed esterno, ultimo filtro tra il privato e la città. E qui sta l’altra invenzione di Melnikov: (43) 58 finestre, esagonali, sono organizzate su più file sfalsate: 3, nell’atelier-studio, frammentano l’esterno in un caleidoscopio di viste inquadrando lo stesso paesaggio da prospettive diverse cosicché, incorniciando apparentemente paesaggi diversi, obbligano infine a una interpolazione per ricomporre una visione unitaria del fuori. In questo rapporto visivo tra interno ed esterno partecipa anche il disegno degli infissi, che fermano lo sguardo sul confine prima che si possa liberare nella profondità del paesaggio urbano (44). Come dice Jean Nouvel “c’è molto più mistero in una vista decomposta, selezionata, enfatizzata, incorniciata che in un’apertura che offre un panorama nella sua totalità.”
In effetti l’uso diffuso delle grandi lastre di cristallo messe a punto dalle tecnologie odierne, ha introdotto una trasformazione non certo trascurabile nella pelle di tanti edifici contemporanei e, conseguentemente, nel contatto visivo tra lo spazio privato e quello pubblico o, comunque, esterno, consentendo una reciprocità di sguardi inusitata tra dentro e fuori, spingendo quello esterno verso una profondità non sempre gradita. Possiamo dire che non si pongono più limiti tecnici alla totale trasparenza delle pareti esterne; eppure queste soluzioni sono spesso accompagnate da schermature giustapposte (frangisole) o serigrafate direttamente sui cristalli (45), che hanno sì il compito di regolare l’ingresso della luce e dell’irraggiamento, ma anche quello di indirizzare lo sguardo, di selezionare il paesaggio e di riaffermare un privato domestico, un dentro e un fuori.
E a proposito di queste annotazioni non si può non suggerire un approfondimento del lavoro che Herzog e de Meuron hanno svolto in questi decenni proprio sulla “pelle” degli edifici, con una particolare attenzione alla gestione della trasparenza, che va dalla scomposizione alla polarizzazione all’opalescenza (46,47,48,49,50).
Esistono case trasparenti e case di pietra e cotto o cemento con poche e piccole finestre; in ogni caso la definizione degli affacci implica una ricerca non solo formale, fino addirittura a marginalizzare quest’ultimo aspetto rispetto alla trasposizione progettuale del programma. Si pensi a villa Malaparte a Capri (1938), quella che Curzio Malaparte stesso chiamò “una casa come me” (51): anticipando il grande soggiorno rispetto alle camere e allo studio, si preclude volutamente la realizzazione di un cannocchiale visivo verso l’orizzonte libero del mare a sud-est (52), risolto magari banalmente con una grande vetrata; la visuale viene così deviata a sud-ovest verso i Faraglioni e a nord-est verso la grotta Bianca e la costiera amalfitana, comunque verso un paesaggio più articolato e pittorico del mare aperto (53). Le grandi finestre del soggiorno sono dunque disposte sui lati lunghi del salone; spesse cornici modanate di legno scuro denunciano l’intenzione di creare dei veri e propri quadri con il paesaggio circostante: le cornici in noce, collocate sulla faccia interna delle pareti, non sono infatti infissi, che sono invece posti a metà della spessa muratura, non hanno quindi una vera utilità funzionale. Rimane inoltre tra cornice e infisso uno spessore abitabile (da “il disprezzo” di Godard).
Questa situazione era diffusa in modo particolare in tempi passati e consentiva di lavorare in una zona ben illuminata ma anche di godere comodamente del paesaggio esterno, urbano o naturale (54,55,56,57), per scrivere, meditare e attendere il ritorno di qualcuno, sollevando di tanto in tanto uno sguardo pensoso sul mondo di fuori (58,59), seduti a un tavolino o su una panca di pietra ricavata negli sguinci delle alte finestre di una casa rinascimentale (60).
“Non è sempre facile distinguere tra pensare e guardare fuori dalla finestra” scriveva il poeta americano Wallace Stevens.
Che lo spazio dedicato alla finestra occupi lo spessore delle pareti e quindi invada lo spazio interno, oppure sporga al di là del confine della casa, come avviene nei bow-windows (61), si tratta comunque di un vano abitabile che forza il confine operando sui bordi per annullarli o renderli meno evidenti. Consideriamo un caso estremo di questa configurazione: la casa di Jorn Utzon a Maiorca (62,63). Qui le finestre sono diventate delle vere e proprie piccole stanze variamente orientate (64,65). Analoga situazione troviamo nelle finestre/tane che abbiamo progettato per questa scuola per l’infanzia nell’Appennino bolognese.
Abbiamo preso in considerazione fin qui spazi che si possono leggere come coreografie del quotidiano e di azioni rituali.
In genere purtroppo la dimensione, dislocazione e forma delle finestre discendono oramai da calcoli più o meno banali relativi a rapporti di aerazione ed illuminazione degli ambienti; così gli spazi della casa vengono per lo più progettati secondo la logica riduttiva dell’ergonomia e di una arredabilità standardizzata secondo usi preassegnati e fissi.
Come unica salvezza L’uso che gli abitanti ne faranno li cambierà poi nel tempo secondo le proprie esigenze funzionali in senso lato. E d’altra parte, secondo Franco Purini “l’Architettura, “ (unica tra le arti) “a causa della dimensione funzionale che la motiva, …… deve accettare una serie pressoché ininterrotta di alterazioni, che ne intaccano la riconoscibilità iniziale.”
(66) Che fare? Parassiti
Su questa linea di rifunzionalizzazione e risignificazione dei luoghi e delle architetture si muove pure la cosiddetta “Architettura Parassita”, così definita da Sara Marini: “… costruzioni nate senza progetto … riciclano illegalmente spazi abbandonati della città. Un fil rouge attraversa pratiche dell’autocostruzione, procedimenti artistici, modalità di occupazione informale dei luoghi e arriva a definire strategie di riciclaggio architettonico.” Qualche esempio può meglio chiarire:
(67) il Ponte Vecchio a Firenze;
(68,69) il progetto a scala urbana di Bernard Tshumi presentato alla Biennale di Beijing 2004 in Cina per Factory 798, in cui l’architetto evita la prevista demolizione e sostituzione dei capannoni in cui si svolgono attività artistiche, proponendo la costruzione di un telaio residenziale a quota +30;
(70,71,72) nel 2001 Korteknie e Stuhlmacher realizzano a Rotterdam (in quell’anno città europea della cultura) una sorta di insegna tridimensionale abitabile, aggrappata all’extracorsa degli ascensori dei grandi edifici industriali usati in quel periodo per mostre: una delle mostre fu proprio Parasites;
(73,74,75) vediamo poi la riqualificazione di due edifici a Parigi in cui Malka Architecture inseriscono moduli sia temporanei che stabili, finestre e logge;
(76,77,78) la casa zaino dell’artista Stefan Eberstadt, un parallelepipedo di circa 9 mq.; appeso alla parete di un vecchio edificio a Lipsia con finestre sulle 5 facce e sugli spigoli evade dalla casa attraverso la finestra immergendosi totalmente nello spazio esterno;
(79) la notissima sopraelevazione di Coop Himmelb(l)au a Vienna; Anthony Vidler commenta così l’opera di CH: “concepiti tramite un processo progettuale non molto diverso da una scrittura automatica, i progetti di Coop Himmelb(l)au tentano di recuperare un collegamento immediato tra linguaggio corporeo e spazio, tra l’inconscio e il suo habitat.”
Alla spontaneità di alcuni processi dell’architettura parassita si può affiancare una intenzionalità programmatica, consentendo di intervenire sulla edilizia esistente secondo un nuovo panorama normativo, seguendo esempi europei (80,81,82) come quelli di Lacaton & Vassal a Bordeaux nel 2017 dove si sono mantenute le famiglie negli edifici esistenti degli anni ’60 smontando le facciate e si sono ampliati gli appartamenti in luminose terrazze protette.
In base a questo approccio si potrebbero formulare progetti meno spontanei prevedendo addirittura, già in fase di progetto di nuovi edifici, griglie di possibile espansione al fine di introdurre nella città edificata modelli di abitare personalizzati applicabili in particolare a tipologie abitative banalmente indifferenziate e omologate, quali quelle per lo più espresse dal mercato.
Penso a telai da giustapporre alle facciate sorde e impersonali dei fronti stradali: griglie in cui inserire volumi e lasciare caselle vuote, movimentando l’intersezione tra dentro e fuori; l’edificio esistente arretra sullo sfondo mentre emerge una nuova stratificazione, una seconda pelle, una nuova soglia.
Si tratterebbe di piccoli interventi diffusi secondo una strategia particolarmente mirata all’esistente (smallness). Si può immaginare la ricchezza che si potrebbe riversare sulla città attraverso questo gioco di pieni e vuoti e percorsi porticati, attraverso queste architetture aggiunte, nate per rispondere alle esigenze di chi le attraversa e per rappresentarne l’identità; architetture realizzabili in stampa 3d, personalizzate o su catalogo, stanze o verande o, ancora, balconi veramente abitabili, sistemi di captazione eolica o solare, giardini pensili oppure orti, piccoli playground, sistemi di accesso a giardini e cortili interclusi e poco frequentati (83,84); e ancora, tetti piani da trasformare in tetti verdi; comunque mai spazi dati una volta per tutte perché sono insite in questo programma la rimovibilità e la sostituibilità, insomma la provvisorietà.
E non è certo una novità nell’architettura contemporanea questo progettare procedendo per stratificazioni; da quelle tecnologiche di Piano (grattacielo Intesa San Paolo a Torino) (85) ai merletti di Rudi Ricciotti per il MUCEM a Marsiglia (86), all’edificio residenziale Ycon di Jean Nouvel a Lione (87,88), alle trasformazioni insite nel codice espressivo di Erskine (89), alla casa foresta di Luciano Pia a Torino in via Chiabrera (90,91).
BIBLIOGRAFIA
Luca Molinari – “Le Case che Siamo”
Edizioni nottetempo, Milano 2020
Ettore Sottsass – “di Chi Sono le Case Vuote”
Adelphi, Milano 2021
Sara Marini – “Architettura Parassita, Strategie di Riciclaggio per la Città”
Quodlibet, Macerata 2008, 2020
Inaki Abalos – “il Buon Abitare, Pensare le Case della Modernità”
Christian Marinotti Edizioni, Milano 2009
Franco Purini – “Comporre l’Architettura”
Edizioni Laterza, Roma 2000
Carlo Aymonino – “L’Abitazione Razionale”
Marsilio Editore, Padova 1971
Lotus International - vari
Industrie Grafiche Editoriali, Milano 1976 N°11
Salvatore Settis
Gillo Dorfles – “Elogio della Disarmonia”
Garzanti, 1986
Autori vari – “Casa”
A cura di Luca Molinari
Treccani, 2022
Paulo Mendes de Rocha – La Città per Tutti”
Edizioni nottetempo, Milano 2021
Ludwig Mies Van der Rohe – “Gli scritti e le Parole”
A cura di Vittorio Pizzigoni
Einaudi, Torino 2021
Anthony Vidler - “Il Perturbante dell’Architettura”
Einaudi, Torino 2006
Fernando Quesada Lopez – “Hugo Haring, Espacios Coreograficos del devenir – 2012 su Proyecto, Progreso, Arcquitectura”